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G'day

Res publica   07.03.10   di Giuseppe Brescia
Brisbane

Ti va di scrivere qualche post sull'Australia, mi dice Tiziano. E perché no, faccio io, e allora eccomi. Grazie per lo spazio concessomi da questo blog, sono ben felice di potervi parlare di questo luogo che ormai considero casa e che a sua volta mi considera uno di casa. E spesso e volentieri mi tratta meglio di quanto non mi trattasse il Bel Paese.

A sproposito, breve presentazione, mi chiamo Giuseppe, vivo a Brisbane, in Queensland, dove traduco, insegno italiano, e mi gingillo con la musica. Con l'ottimo autore di questo blog ci conosciamo sin dalla prima elementare, ne abbiamo passate parecchie, ci siamo persi nello stesso quartiere e ritrovati dieci anni dopo, vivendo agli antipodi, tramite la rete.

Ma passiamo all'Australia, che è ben più interessante di me. Ho l'immodesta ambizione che tramite queste testimonianze una manciata di persone possa conoscere e capire meglio questa terra così fondamentalmente lontana - sia fisicamente sia culturalmente.

Immagino sia opportuno considerare il punto di partenza di chi vorrà leggere queste righe. Da qualche anno a questa parte, l'Australia è di gran moda. In Italia, e in tutta Europa, nella mente della mia generazione si è radicata quest'Australia romantica di cui tanti vagheggiano ma che pochi conoscono. C'è chi ne parla ma non c'è mai stato - però ha visto il film di Baz Luhrmann, tutti e tre i Crocodile Dundee, e i documentari di Steve Irwin. C'è chi c'è stato ma in veste di backpacker, peregrinando da ostello a ostello, campando di risparmi e lavoretti saltuari e circondandosi di altri avventurieri del sacco a pelo. Un'esperienza incredibile, non fraintendetemi, ma in quel modo dell'Australia e degli australiani si capisce ben poco. Io, vivendoci la quotidianità da quattro anni, penso di averne una visione piuttosto obiettiva.

Giunto qui per questioni di cuore, il primo anno rimbalzavo fra inebetito stupore e critiche feroci. Queste ultime però perdevano forza e coerenza man mano che mi abituavo al diverso. Man mano che mi scrollavo di dosso quell'italianissimo riflesso di considerare strano o inferiore o semplicemente sbagliato qualsiasi approccio differisca dal nostro. O l'insofferenza congenita al rispetto delle regole che mai come oggi ci contraddistingue come popolo. Più difficile era invece uscire dal suddetto inebetito stupore, giacché continuavo a vedere casette con giardino e piscina, e a scoprire che ci vivevano, che so, un muratore e una maestra precaria. La famigerata classe media è enorme, il gap fra ricchi e poveri è fra i più bassi al mondo, la mobilità sociale fra le più alte. E poi vedi gente presa bene che ringrazia l'autista scendendo dall'autobus, rispetto autentico per chi ha colore, idee, cultura, desideri sessuali diversi dai tuoi. Vedi buon senso, voglia di fare, gente che guarda al futuro, politici sotto torchio. La lista sarebbe lunga, ma mi sono ripromesso di sviscerare i vari aspetti di questo paese con la dovuta calma nei prossimi post.

Tuttavia, per anticipare comprensibili e prevedibili obiezioni, va detto che l'idea che ci facciamo di un luogo è fortemente condizionata da come l'abbiamo vissuto. Gli italo-australiani di Lygon Street, la Little Italy di Melbourne, rimpiangono un'Italia forse mai esistita semplicemente perché quando sono arrivati qui negli anni '40 e '50 erano trattati male e dovevano lavorare come bestie. Cosa che, però, fece anche mio nonno, rimasto in Italia a fare l'operaio e il contadino, e morto pressoché senza un soldo, a differenza dei paisà che qui hanno trovato un certo benessere. Ma, dicevo, non vorrei che la mia analisi peccasse troppo di soggettività, quindi, in attesa di sviscerare i singoli aspetti che mi preme analizzare, mi sembra sensato iniziare a ragionare su alcuni numeri. Si tratta di indici internazionali elaborati dalle più svariate organizzazioni. Di alcuni si potranno condividere o meno i criteri, ma ciò non toglie che mi sembrano un buon punto di partenza per spiegare il trasmigrare mio e di tanti altri quaggiù nella Land Down Under.

Cominciamo con l'ormai tristemente famoso rapporto annuale di Freedom House sulla libertà di stampa. Guida l'Islanda, prima con 9 punti (attenzione, ché meno punti si pigliano, meglio è). L'Australia si piazza maluccio, 38ª posizione con 22 punti (dopotutto c'è un tale Rupert Murdoch). L'Italia riesce a piazzarsi 73ª, con 32 punti, nuovamente piombata fra i paesi semi-liberi. Ma di questo si parla dai tempi di Raiot.

Solo che uno magari dice, "che mi frega a me dei giornali, io voglio solo stare tranquillo". E allora passiamo al Global Peace Index di Vision for Humanity. Qui lo scarto è di nuovo sensibile ma non impietoso. Australia 19ª e Italia 36ª.

Passiamo all'economia, che conta non poco nelle nostre vite? L'indice di libertà economica elaborato da Heritage Foundation e Wall Street Journal (per carità, discutibilissimo, non è che il sottoscritto penda dalle labbra di Adam Smith) è davvero impietoso, Australia 3ª e Italia che si piazza al 73° posto. Restiamo in tema ma passiamo alle cose pratiche. La Banca Mondiale analizza la facilità di fare impresa nei diversi paesi - qui si parla anche e soprattutto di piccole imprese, di giovani con delle idee - e anche qui ne usciamo male. L'Australia è 9ª. L'Italia ribatte con una fiacca 74ª posizione, e nello specifico è 156ª per quanto riguarda la voce far rispettare i contratti. Pare sia più facile in mezza Africa, e da traduttore freelance, fidatevi, non stento a crederlo. Si collega al discorso anche l'indice della corruzione percepita elaborato da Transparency International. L'Australia è 8ª con un buonissimo 8,7 su 10. L'Italia si piazza, e qui davvero non c'era da stupirsi, al 63° posto con un misero 4,3.

No, comunque va benissimo Tremonti, eh, per carità.

Vorrei chiudere su un indicatore che per me è particolarmente agghiacciante, perché - come la pace e la libertà di stampa - non dipende solo dall'incompetenza degli amministratori, e cioè quello del gap fra i sessi. La lista è stilata dal Forum Economico Mondiale, e vede un'Australia che potrebbe certo fare di più in 20ª posizione. L'Italia, signore e signori, è 72ª. Ci tallona la Tanzania. Non sto scherzando.

E adesso lo so che sembrerò, nel migliore dei casi, quello che ti batte la stecca con strafottenza, e nel peggiore un ingrato anti-italiano, ma non mi fa piacere elencare dati simili. In Italia ho gli amici, la mia famiglia. Che meriterebbero di meglio. Ma ci provo da anni a spiegare le ragioni della mia migrazione agli antipodi, e mi sono reso conto che senza passare per questi numeri è dura. Perché prima di partire anch'io dicevo "tutto il mondo è paese".

Detto questo, mettiamo in chiaro che quaggiù non è certo tutto rose e fiori. Parleremo della piaga della condizione degli indigeni, dei bifolchi dell'Outback e di tutte le altre pecche di questo paese. Mark, l'altro corrispondente dall'Oceania, ha affrontato ad esempio con grande lucidità il problema della lentezza australiana nell'affrontare a livello legislativo il cambiamento climatico. Lui però, beato che non è altro, scrive dalla Nuova Zelanda, che negli indici di cui si è parlato è due volte prima e conquista anche un quarto, un quinto e un nono posto. Io invece ero abituato a fare all'italiana, e di questa Australia non posso certo lamentarmi.

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