La parola "pandemia" ti dà, inevitabilmente, l'idea di una globalità che non discrimina, un'onnipresenza che in teoria potrebbe per una volta dar credito alla scellerata concezione che "tutto il mondo è paese". Nei miei ormai tre lustri da italiano in Australia, mi è capitato spesso di ringraziare il fato che mi aveva condotto fin qui, ma ai primi di marzo confesso di aver avuto la sensazione che stavolta il luogo in cui vivevo avrebbe fatto ben poca differenza.
Certo, conoscendo le differenze strutturali fra Italia e Australia provavo sottopelle un senso di ottimismo, ma la parte più razionale di me accusava l'altra di farsi illusioni.
I media, anche quelli più sobri, su cui di solito posso contare, lanciavano avvertimenti minacciosi: "Siamo l'Italia due settimane fa." Numeri e proiezioni da incubo saltavano fuori dai modelli matematici più disparati, non ci sarebbero stati abbastanza letti per la terapia intensiva, né tanto meno ventilatori, forse neppure mascherine. Si intervistavano medici e infermieri di Bergamo e Lodi che ci mettevano in guardia con appelli accorati.
Più analizzavo i dati, però, più avevo l'impressione che la maggior parte dei confronti facesse acqua da tutte le parti. Impressione che ha cominciato a trovare conferme quando due settimane buone dopo aver detto: "Siamo l'Italia due settimane fa" le stesse persone dicevano: "Siamo l'Italia tre settimane fa". Diverse settimane dopo il mio paese natio rimane sul tutt'altro che desiderabile podio del tasso di letalità e fra le primissime posizioni in fatto di contagi, mentre la mia patria adottiva è uno dei pochissimi casi nei quali la risposta alla pandemia si può, al momento, considerare un successo.
Vediamo come, e perché.
L'Australia ha cominciato a effettuare controlli a tappeto sugli arrivi da Wuhan il 23 gennaio. Due giorni dopo, il 25, un passeggero di ritorno dalla provincia di Hubei è risultato positivo. In Italia, i primi casi accertati sono quelli della coppia tornata da Wuhan il 23 gennaio via Malpensa, e transitata per Verona e Parma prima di arrivare a Roma, dove i tamponi sono stati effettuati in piena fase sintomatica soltanto otto giorni dopo. Il blocco immediato dei voli dalla Cina all'Italia è stato senz'altro una reazione avveduta, ma anche qui la differenza con l'Australia è fondamentale: qui si è imposta la quarantena di due settimane in un paese terzo a chiunque fosse stato in Cina. Nei dieci giorni successivi la stessa sorte è toccata anche a chi proveniva da Iran, Corea del Sud e Italia. La reazione, rapida e puntuale, ci ha permesso di non liberare nella comunità troppe persone che, sintomatiche o meno, avrebbero potuto creare rapidamente focolai in diverse località, e così abbiamo guadagnato tempo preziosissimo che si è poi rivelato fondamentale e ci ha concesso il lusso di poter imparare dai successi e dagli errori altrui (soprattutto Taiwan e Corea del Sud nel primo caso, e, ahimè, l'Italia nel secondo).
Fondamentale è anche la condizione di partenza dei due paesi: chiunque sia mai venuto in Australia si ricorderà della cartolina che va tassativamente compilata prima di atterrare (roba degna del doganiere che fa perdere il senno a Benigni e Troisi in Non ci resta che piangere, e materiale per discutibili reality show che a quanto pare in Italia sono diventati di culto). Chi sei, dove sei stato, da dove sei transitato, sei stato in campagna, dove vai, con chi stai, numero di telefono, prego. Cartolina che va consegnata alla dogana in occasione del controllo dei bagagli dopo una lunga coda alla quale non si sfugge. A molti, in un mondo pre-COVID, sembrava un folle eccesso di zelo, ma si tratta di un sistema che è tornato davvero utile quando si è trattato di serrare i controlli. Paragoniamolo a un aeroporto italiano, e soprattutto pensiamo a quanto tali informazioni possano fare la differenza quando si tratta di rintracciare il più in fretta possibile chi era seduto vicino a un caso positivo sul volo di ritorno. Il che ci porta a quella che secondo gli esperti è l'arma fondamentale dei paesi che se la stanno cavando meglio degli altri: il tracciamento capillare dei contatti.
Adesso fatico a rintracciare i dati, ma quando nello stato del Queensland, dove vivo, c'erano 640 contagi e spicci, le autorità sanitarie già avevano sguinzagliato i loro investigatori per tracciare oltre 50.000 contatti, i quali erano stati allertati del rischio, e quindi sottoposti a tampone.
Insomma, il controllo severo delle frontiere, l'imposizione della quarantena in un paese terzo, e il tracciamento dei contatti hanno evitato sin da subito situazioni come quelle di Codogno e Alzano Lombardo, per citare solo i casi più eclatanti. Di sicuro i miei ex-studenti di italiano che hanno potuto capire cosa diavolo sia successo in quei casi non credevano ai propri occhi e alle proprie orecchie.
Altro ambito che lascia stupiti è l'andamento delle curve epidemiologiche nei due paesi. L'espansione della "zona rossa" a tutto il territorio italiano risale al 9 marzo. Quel lockdown, molto più severo di quello adottato da noialtri a testa in giù, ha cominciato a dare risultati considerevoli solo dopo due settimane, quando la crescita giornaliera dei casi è finalmente scesa sotto il 10%, per poi scendere al 4% una settimana dopo e da lì in poi calare molto, ma molto lentamente, scendendo a livelli inferiori al 2% soltanto il 18 aprile. Il 27 aprile per la prima volta si è rimasti sotto l'1%, ma di un soffio (0.9%).
In Australia, per contro, un lockdown molto meno severo è stato attuato a scaglioni fra il 18 e il 25 marzo, quando la crescita giornaliera nel numero dei contagi era intorno al 25%. Il 29 di marzo già si era sotto il 10%, il 3 aprile si è scesi sotto il 5%, e dal 12 di aprile siamo costantemente sotto l'1%.
Impossibile per i profani (ma anche per chi se ne intende, vista la probabile miriade di variabili coinvolte) capire fino in fondo il perché di una simile differenza nei risultati. Di sicuro ha aiutato il fatto che, in virtù dei controlli alle frontiere di cui sopra, il grosso dei casi registrati in Australia prima del lockdown provenisse dall'estero, cosa che ha senz'altro aiutato il contenimento. Come già detto, poi, il tracciamento dei contatti è stato fondamentale. Ancora non si capisce se la chiusura quasi immediata delle scuole in Italia sia stata saggia o dannosa. Eppure, avendo il polso di entrambi i paesi, non riesco a togliermi dalla testa l'idea che in Italia ci si sia concentrati sulle cose sbagliate (il poveretto che fa una corsa in perfetta solitudine, l'assurdo limite dei 200 metri, l'ossessione per guanti e mascherine) senza che invece si modificassero a sufficienza i comportamenti nel privato (visite a familiari, carenza di tamponi per chi già aveva sintomi piuttosto evidenti, e i cui familiari magari ancora andavano quotidianamente al lavoro).
Da questo punto di vista, la comunicazione istituzionale ha giocato secondo me un ruolo fondamentale. L'impressione è che in Italia le istituzioni abbiano oscillato fra il paternalismo e l'autoritarismo, sconfinando spesso in un nazionalismo a tratti disperato, dalla storia dei tedeschi che contavano diversamente i morti (e che invece, a parità di spesa, avevano cinque volte più posti in terapia intensiva) alla settimana di delirio collettivo durante la quale si estrapolava la dichiarazione di un funzionario britannico per accusare Boris Johnson di avere come unica strategia l'attesa dell'immunità di gregge, e si finiva per degenerare in castelli in aria sulla superiorità della morale latino-cattolica rispetto alla spietatezza dei grezzi barbari anglosassoni. Roba che neanche ai tempi della perfida Albione. Soprattutto, la sensazione è stata quella di autorità non intenzionate o incapaci a spiegare le motivazioni e i dati scientifici che stavano dietro alle loro decisioni, spesso arbitrarie e a volte controproducenti.
Qui in Australia, invece, il grosso del fastidio che ho provato è stato legato all'eccesso di allarmismo dei media, che parevano determinati ad instillare preoccupazione in una popolazione tutto sommato abbastanza tranquilla. Ma dal punto di vista istituzionale, ha prevalso una noiosa sobrietà, e soprattutto il primo ministro Scott Morrison e i suoi collaboratori hanno saputo spiegare, ad ogni conferenza stampa, le misure adottate dal governo, e le evidenze scientifiche che le rendevano necessarie o appropriate. Accanto lui, quasi immancabilmente, il Chief Medical Officer Brendan Murphy con le sue presentazioni fitte di grafici e modelli matematici e il suo linguaggio da medico che però sa far capire la materia al cittadino medio.
Tutto questo probabilmente ha contribuito alla reazione tutto sommato estremamente disciplinata della popolazione alle inevitabili restrizioni del lockdown, aiutandoci ad appiattire la curva in maniera molto più rapida ed efficace del previsto, con il risultato che adesso possiamo pian piano riaprire in relativa sicurezza, con un sistema sanitario pronto ad affrontare scenari degni della bergamasca.
Uno degli aspetti più convincenti è stata la grande coordinazione delle istituzioni. Fin dall'inizio si è dato vita a un gabinetto nazionale con il governo federale più i rappresentanti dei vari stati e territori. Nel giro di poco, è nata anche una commissione di coordinamento che ha attinto fra le figure più esperte nei campi più disparati, dalla logistica alla medicina passando per la gestione delle grandi imprese, e che ha costantemente proposto al governo soluzioni pratiche per minimizzare il danno economico e sociale. Per sostenere l'economia, il governo ha stanziato 320 miliardi di dollari (equivalente a circa il 16% del PIL) e ha predisposto sgravi fiscali e misure di assistenza per altri 200 miliardi circa. L'idea è stata quella di "ibernare l'economia". A partire dal primo di aprile, chi ha dovuto chiudere, anziché licenziare i lavoratori, ha potuto richiedere al governo un sussidio per ogni dipendente (in sostanza un'estensione dei sussidi normalmente riservati ai disoccupati). Si è anche deciso di aumentare del 50% tali sussidi per i prossimi sei mesi. Inoltre qualunque libero professionista che abbia osservato una riduzione superiore al 30% nei propri ricavi ha diritto a qualche forma di integrazione pagata dallo stato.
L'altro giorno, poi, mi sono trovato uno sconto di $200 sulla bolletta, di cui neppure avevo sentito parlare. Insomma, una serie di misure relativamente semplici e dirette, attuate utilizzando i canali già esistenti della previdenza sociale, che finora sembrano aver arginato la crescita della disoccupazione, salita dal 5,2% al 6,2% (gli economisti prevedevano un balzo all'8% già per il mese di aprile). Da quel che sento, anche in Italia si parla di cifre importanti, ma a quanto pare la situazione è, come al solito, fra il machiavellico e il kafkiano.
Una decina di giorni fa è stata lanciata un'app concepita per aiutare le autorità sanitarie nel tracciamento dei casi. Si tratta in sostanza della stessa app utilizzata a Singapore. Il codice è disponibile online, la privacy dei dati è senza precedenti, e sei milioni di australiani l'hanno già installata, con la speranza di risparmiare centinaia di ore di lavoro e guadagnare tempo prezioso ogni volta che si renderà necessario tracciare i contatti di un nuovo caso positivo. Speriamo di convincere, con il codice sorgente alla mano, chi non si fida del governo ma è ben lieto di non aver segreti con Mark Zuckerberg pur di sapere chi era in una vita precedente o quale personaggio di Friends sia il suo spirito guida.
E concludiamo proprio con la casistica. Alle porte dello Step 1 di una riapertura in quattro fasi, l'Australia conta 623 casi attivi, su un totale contagi testardamente sotto i 7000. I morti sono stati 98 (22 riconducibili a una nave da crociera, e un'altra ventina buona a due case di riposo di Sydney). Ci sono 50 persone in ospedale, 17 delle quali in terapia intensiva. Nel frattempo, però, ci siamo attrezzati. Avevamo 2.200 letti per la terapia intensiva, ora ne abbiamo 7.500.
Il Territorio della Capitale è, al momento, a zero casi attivi. Nel Territorio del Nord ci sono stati due nuovi casi nelle ultime sei settimane, in Australia Meridionale un caso nelle ultime tre. L'Australia Occidentale ha registrato tre casi in dieci giorni, il Queensland quattro casi nell'ultima settimana. Nonostante la risonanza mediatica, il recente focolaio in un macello di Melbourne è stato arginato e anche lo stato del Victoria conta intorno ai 10 nuovi casi al giorno. Il Nuovo Galles del Sud, epicentro nazionale, continua anch'esso ad appiattire questa benedetta curva. Alla piccola Tasmania è bastato farsi sfuggire un focolaio tutto sommato modesto nel nord-ovest per diventare lo stato più colpito rispetto al numero di abitanti, ma anche lì i casi attivi sono rimasti otto. Il tutto a fronte di 30,000 tamponi al giorno, che negli ultimi giorni hanno dato meno di 15 risultati positivi. Una percentuale bassissima che dà fiducia alle autorità quanto ai cittadini nel momento in cui ci riaffacciamo alla vita. Da questo weekend potranno infatti riaprire nel Queensland caffè, pub, e ristoranti, pur con il limite di 10 avventori. Se tutto va secondo i piani (e finora è andata meglio) fra un mese ci sarà un ulteriore rilassamento delle restrizioni.
Alla fin fine, per il momento i grandi successi nella gestione della pandemia sono quattro: Taiwan in primis, e poi Corea del Sud, Nuova Zelanda e Australia. Il virus potrà non discriminare, ma la reazione delle istituzioni e il senso civico dei cittadini fanno la differenza. L'augurio alla mia terra natia è di continuare sulla buona strada, ché anche se non potrò tornare a trovarla quest'estate, l'appuntamento è solo rimandato.
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