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Come funziona la carbon tax australiana

Res publica   15.07.11   di Giuseppe Brescia
Brisbane

Dopo le elezioni dello scorso anno, che hanno fatto dei Greens l'ago della bilancia al Senato federale australiano, era inevitabile che il primo ministro Julia Gillard dovesse rimangiarsi la sua promessa elettorale di non introdurre alcuna carbon tax. I verdi, guidati dal senatore Bob Brown, ne hanno fatto una priorità, e pare stiano finalmente raccogliendo i frutti di un lavoro trentennale.

Il governo laburista di Gillard, con il sostegno dei verdi e i voti decisivi degli indipendenti alla camera, ha infatti presentato la scorsa settimana il suo gigantesco progetto volto ad introdurre una carbon tax per ridurre le emissioni dell'80% entro il 2050.

L'idea è semplice. Si tassano le emissioni inquinanti (23 dollari a tonnellata di CO2, e i tassati, per affrontare i costi, aumentano i prezzi per i consumatori (si prevede un aumento medio dello 0.7%, o $9.90 a settimana per la famiglia media), che beneficeranno di sgravi fiscali ($10.10 a settimana per la famiglia media). Nel frattempo le energie rinnovabili e i beni prodotti a basse emissioni, non essendo tassati, diventeranno sempre più competitivi, complice anche il progresso tecnologico, cambiando sul medio-lungo termine il comportamento dei consumatori, che saranno sempre più orientati verso prodotti a basse emissioni. A quel punto le compagnie tassate, perdendo sempre maggiori quote di mercato, hanno un doppio incentivo a passare anche loro a metodi di produzione più puliti. Dal 2015, poi, si passerebbe ad un sistema cap-and-trade.

Le critiche arrivano da ogni parte. Per gli ambientalisti non è abbastanza. Per i liberali è una soluzione centralista e statalista. Per i nazionalisti una tassa sulle emissioni inquinanti azzopperà l'economia e farà scappare i mai meglio definiti investitori in Africa, Sudamerica, o in qualsiasi altra parte del globo dove vari governi, più o meno irresponsabili, non hanno alcuna intenzione di affrontare la sfida del cambiamento climatico. In sostanza, dietro l'argomento apparentemente ragionevole secondo il quale un investitore sceglierebbe naturalmente il mercato più vantaggioso, queste persone si oppongono a qualsiasi carbon tax che non abbia un carattere globale (al che griderebbero al golpe planetario da parte di un qualche Nuovo Ordine Mondiale, ma quella è un'altra storia). Al di là delle previsioni tutt'altro che catastrofiche dei modelli matematici, va da sé che anche un paio di paginette di sussidiario riguardo le istituzioni internazionali potrebbero spiegare a questi signori l'impossibilità di uno schema simile allo stato attuale delle cose. Si invoca, fondamentalmente, un incosciente gioco del pollo con l'ambiente in palio. Oltretutto, se è vero che l'Australia ha un ruolo marginale per quanto riguarda il totale globale delle emissioni di CO2, è uno dei paesi che ne emette di più pro capite. E, soprattutto, i critici sembrano ignorare l'importanza di un effetto domino, e del proliferare di esempi positivi e produttivi che spingano sempre più governi a seguire la stessa strada. Vale la pena notare, a questo proposito, che diversi paesi hanno introdotto misure simili vent'anni fa. Certo, si tratta dei soliti noti, con in testa la Finlandia (1990), seguita da Paesi Bassi (1990), Norvegia (1991), Danimarca (1992), e il caso più emblematico, la Svezia, che nel gennaio del 1991 introdusse una tassa di 72 euro per tonnellata di CO2, salita poi a 101 euro nel 2007 (la carbon tax australiana invece, come detto sopra, prevede un prezzo comparativamente irrisorio: 23 dollari australiani a tonnellata, circa 17 euro), che ha portato ad una riduzione del 9% delle emissioni fra il 1990 e il 2006, un periodo nel quale l'economia svedese è cresciuta del 44%. Il tutto con un massiccio passaggio da combustibili fossili a biomasse ed altre rinnovabili, nelle quali oggi la Svezia è all'avanguardia. A leggere questi numeri si capisce bene per quale motivo nessun economista degno di nota sembri sposare le tesi catastrofiste dell'arrampicatore politico Tony Abbott e del suo delirante partito liberale.

C'è poi chi accusa e lincia i verdi (compreso il quotidiano generalmente filo-laburista The Australian) per aver insistito affinché le tecnologie di stoccaggio e sequestro dell'anidride carbonica fossero escluse da un fondo da 10 miliardi dollari destinato alle energie rinnovabili. Tuttavia, viste anche le varie difficoltà logistiche, il leader del partito Bob Brown ha detto chiaramente che, visti i loro profitti multi-miliardari, dovrebbero essere i big del carbone a pagarsi la propria ricerca, senza intascare soldi pubblici che, a suo dire, ha più senso destinare alle energie pulite propriamente dette.

Reazioni tutt'altro che catastrofiste arrivano anche da diversi addetti ai lavori, come Keith De Lacy, amministratore delegato della Macarthur Coal, che estrae carbone in Queensland. Aggiungiamoci il fatto che Peabody Energy e ArcelorMittal hanno appena fatto un'offerta di 4,7 miliardi di dollari per assorbire la Macarthur stessa, segno che gli investitori nel campo del carbone non sembrano poi così spaventati.

In ogni caso proposta passerà presto al vaglio del parlamento, dove, a meno di clamorose defezioni, diventerà legge. Con il proprio indice di gradimento al minimo storico (30% di soddisfatti a fronte di un 59% di insoddisfatti, molto più basso del 39-50 di Kevin Rudd quando i laburisti lo fecero fuori politicamente poco più di un anno fa in vista delle elezioni) così come quello del suo partito, Julia Gillard ha osato mettere la faccia su una delle misure più impopolari che potesse proporre, specie in un paese dove la lobby del carbone e i giganti del settore minerario riescono ad avere una notevole influenza. Coraggio è la prima parola che viene in mente. Fino ad oggi Julia Gillard ha cercato di piacere alla popolazione, con scarsissimi risultati. Potrebbe aver deciso che a questo punto tanto vale guidare il paese con l'autorità che le compete e fare scelte impopolari quanto importanti per il futuro. I prossimi mesi saranno cruciali, e c'è la possibilità concreta che il governo vada a casa fra due anni e che i liberali straccino l'intero progetto. Ma se Gillard dovesse invertire la tendenza, convincere con i fatti e centrare una vittoria elettorale - ad oggi apparentemente impensabile - alle prossime elezioni del 2014 sarebbe davvero il segno che qualcosa sta finalmente cambiando.

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