Che fine ha fatto Occupy
Laurie Penny, giornalista dell'Independent, è tornata a Zuccotti Park per intervistare gli ultimi irriducibili attivisti di Occupy e per fare il punto su un movimento che ha lasciato poche tracce dietro di sé.
Laurie Penny, giornalista dell'Independent, è tornata a Zuccotti Park per intervistare gli ultimi irriducibili attivisti di Occupy e per fare il punto su un movimento che ha lasciato poche tracce dietro di sé.
Il salvataggio dell'Eurozona passa per l'accordo sullo scudo anti-spread.
L'accordo prevede che i paesi 'virtuosi' sotto la pressione di spread 'eccessivi' possano usufruire dell'acquisto di una parte dei loro titoli di Stato da parte dei fondi di salvataggio dell'Eurozona (l'Efsf e il suo successore permanente, l'Esm), senza per questo doversi sottoporre a condizioni aggiuntive rispetto agli impegni già presi con la Commissione e l'Eurogruppo nell'ambito delle cosiddette raccomandazioni 'country specific', che applicano il 'Semestre europeo', il Patto di stabilità e la 'procedura sugli squilibri macroeconomici'.
In sostanza, il paese interessato dovrà comunque fare una richiesta formale di attivazione dell'intervento del Fondo di salvataggio, e sottoscrivere un 'Memorandum of understanding' ('Protocollo d'intesa') con la Commissione europea. Su questo punto Monti non ha ottenuto quello che voleva (l'attivazione automatica dell'intervento quando gli spread superassero una determinata soglia). Ma il 'Memorandum' non conterrà una 'condizionalità aggiuntiva'.
Chiunque vinca il 17 giugno la Grecia non uscirà dall'Unione e non abbandonerà l'euro.
Chiunque vinca chiederà di rinegoziare il memorandum per ottenere tassi più bassi e tempi più lunghi, afgiancandolo a un piano nazionale per la crescita.
Chiunque vinca, anche Syriza, una volta al governo abbasserà i toni.
Il pensiero di Marco Zatterin su La Stampa.
Tsipras è in campagna elettorale, ha capito che giocare contro l'Europa cattiva lo aiuta. Se eletto, cambierà tono. Lo ha fatto anche François Hollande. Qualcuno ricorda ancora i proclami contro il Fiscal Compact da rinegoziare o non ratificare? Chiusi i seggi, sono finiti nel poco o nulla.
Il Merkel-pensiero sull'Europa di domani. Un'accelerazione a lungo attesa dai possibili contraccolpi previsti.
Noi diciamo che abbiamo bisogno di più Europa, che non abbiamo solo bisogno di un'unione monetaria, ma che serve anche una cosiddetta unione fiscale, cioè più coordinamento per le politiche di bilancio.
Abbiamo bisogno di un'unione politica, il che significa che dobbiamo dare, passo dopo passo, più competenze all'Europa, accordando all'Europa anche più poteri di controllo.
Sembra essersi fatta strada l'idea che per risolvere il deficit democratico dell'Unione, rimettere in moto un circolo virtuoso di crescita sostenibile e salvare l'euro sia ormai necessaria un'unione fiscale e bancaria.
Equivale a dire che abbiamo bisogno di un'unione politica e degli eurobond, o in qualunque modo li si voglia chiamare. In parole povere i contribuenti tedeschi dovranno garantire, per amore di solidarietà, i debiti e i fallimenti di chi fino a ora non solo ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità, ma ha per decenni eletto politici corrotti che hanno regolarmente ingannato le istituzioni continentali e truccato i conti.
Quest'idea di federazione leggera, che dovrà inevitabilmente venire a crearsi attraverso la negoziazione di un nuovo trattato, comporterà la perdita della sovranità nazionale nelle politiche di bilancio, in quelle fiscali, sociali, delle pensioni e naturalmente del mercato del lavoro.
Ve lo ripeto, la perdita di sovranità nelle politiche di bilancio, in quelle fiscali, sociali, delle pensioni e del mercato del lavoro. Chiaro?
Beninteso, io ci metterei la firma oggi stesso perché queste materie venissero delegate a Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo.
Al contrario non sono così sicuro della reazione dei fautori della crescita contro l'austerity qualunque-cosa-sia, dei teorici degli eurobond, dello scravattato Tsipras e dello statilista Hollande.
Si ha l'impressione che la salvezza dell'Europa attraverso questa strada creerà più di un mal di pancia a chi oggi la propone non come una ragionata e ambiziosa visione di lungo periodo, ma come soluzione dettata dalla demagogia.
La teoria secondo cui la Grecia dovrebbe liberarsi dalla dittatura dell'euro per tornare alla sovranità monetaria, svalutando la dracma e puntando alla crescita grazie alle proprie risorse riceve un primo duro colpo.
Il settore turistico, principale entrata del paese, ha fatto registrare un calo pari a un terzo delle prenotazioni a causa della crescente paura di instabilità.
Restano le olive.
Momenti veltroniani per la direttrice del Fondo Monetario Internazionale alle prese con la crisi greca.
Penso più ai bambini di una scuola in un piccolo villaggio in Niger che devono condividere una sedia in tre. Perché penso che abbiano più bisogno di aiuto loro della gente di Atene.
La fantaproposta del capo economista della Deutsche Bank Thomas Mayer. L'ennesima ciambella di salvataggio per i greci.
Il prossimo passo, ve lo annuncio, sarà il baratto.
Se la sinistra radicale dovesse vincere le elezioni del 17 giugno e mantenere la promessa di non attuare i tagli previsti nel piano di aiuti da 130 miliardi di euro, la Grecia potrà restare nell’eurozona senza aiuti finanziari, a condizione che introduca una valuta parallela. Il "geuro" sarebbe costituito da promesse di pagamento, una forma di titolo di debito emesso dal governo che potrebbe essere rivenduto. La nuova valuta sarebbe fortemente svalutata rispetto all’euro ma permetterebbe al governo di Atene di guadagnare tempo per portare a termine le riforme e approvare i tagli al bilancio. [...] Una condizione essenziale per il buon esito della proposta è che gli aiuti continuino ad arrivare dagli altri paesi dell’eurozona e dall'Fmi. [...] Le banche greche, prive di liquidità, avrebbero inoltre bisogno di essere salvate con la creazione di una "bad bank" europea.
Un uno seguito da 12 zeri. E' il costo stimato nell'ipotesi di un'uscita della Grecia dall'euro.
Costo che inciderebbe sulla spalle di ogni singolo cittadino europeo.
Una tassa sull'irresponsabilità di chi favoleggia su soluzioni argentine, socialisti sogni di notti islandesi, invocando decrescite felici, giardinetti glocali a chilometro zero, combattendo il signoraggio bancario con monete virtuali peer-to-peer e baratti.
Il fallimento dei negoziati per la nascita di un governo di coalizione ad Atene e la completa incertezza sul nuovo passaggio elettorale che si prospetta a giugno ha scatenato nuove ondate di panico e azzardate speculazioni sul futuro della Grecia in Europa.
In quattro punti Stefano Lepri spiega perché l'uscita dall'euro e il ritorno della dracma sarebbero mosse suicide per Atene.
Punto primo. La Grecia non è in grado di sopravvivere da sola; non più di quanto potrebbe ad esempio - per avere un'idea delle dimensioni - una Calabria separata dall'Italia.
Senza aiuti dall'Europa e dal Fondo monetario, presto non avrebbe soldi né per pagare gli stipendi degli statali né per comprare all’estero ciò che serve ad andare avanti, tra cui alimenti e petrolio.
Punto secondo. Dopo la ristrutturazione a carico dei privati, oggi circa la metà del debito greco è in mano all'Europa o al Fondo monetario. Quindi se la Grecia non paga, ci vanno di mezzo soprattutto i contribuenti dei Paesi euro, cioè noi tutti (in una stima sommaria, circa un migliaio di euro a testa).
Punto terzo. Il ritorno alla dracma sarebbe vantaggioso solo nella fantasia di economisti poco informati, per lo più americani. Trapela ora che il governo Papandreou aveva commissionato uno studio dal quale risultava che perfino i due settori da cui la Grecia ricava più abbondanti introiti, turismo e marina mercantile, non sarebbero molto avvantaggiati da una moneta svalutata.
Punto quarto. L'incognita vera è quali danni aggiuntivi, oltre al debito non pagato, una eventuale bancarotta della Grecia causerebbe agli altri Paesi dell'area euro (in primo luogo crescerebbero gli spread). Di certo le conseguenze sarebbero asimmetricamente distribuite: più gravi per i Paesi deboli, in prima fila il Portogallo poi anche Spagna e Italia; meno gravi per la Germania.