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Come funziona la carbon tax australiana

Res publica   15.07.11   di Giuseppe Brescia
Brisbane

Dopo le elezioni dello scorso anno, che hanno fatto dei Greens l'ago della bilancia al Senato federale australiano, era inevitabile che il primo ministro Julia Gillard dovesse rimangiarsi la sua promessa elettorale di non introdurre alcuna carbon tax. I verdi, guidati dal senatore Bob Brown, ne hanno fatto una priorità, e pare stiano finalmente raccogliendo i frutti di un lavoro trentennale.

Il governo laburista di Gillard, con il sostegno dei verdi e i voti decisivi degli indipendenti alla camera, ha infatti presentato la scorsa settimana il suo gigantesco progetto volto ad introdurre una carbon tax per ridurre le emissioni dell'80% entro il 2050.

L'idea è semplice. Si tassano le emissioni inquinanti (23 dollari a tonnellata di CO2, e i tassati, per affrontare i costi, aumentano i prezzi per i consumatori (si prevede un aumento medio dello 0.7%, o $9.90 a settimana per la famiglia media), che beneficeranno di sgravi fiscali ($10.10 a settimana per la famiglia media). Nel frattempo le energie rinnovabili e i beni prodotti a basse emissioni, non essendo tassati, diventeranno sempre più competitivi, complice anche il progresso tecnologico, cambiando sul medio-lungo termine il comportamento dei consumatori, che saranno sempre più orientati verso prodotti a basse emissioni. A quel punto le compagnie tassate, perdendo sempre maggiori quote di mercato, hanno un doppio incentivo a passare anche loro a metodi di produzione più puliti. Dal 2015, poi, si passerebbe ad un sistema cap-and-trade.

Le critiche arrivano da ogni parte. Per gli ambientalisti non è abbastanza. Per i liberali è una soluzione centralista e statalista. Per i nazionalisti una tassa sulle emissioni inquinanti azzopperà l'economia e farà scappare i mai meglio definiti investitori in Africa, Sudamerica, o in qualsiasi altra parte del globo dove vari governi, più o meno irresponsabili, non hanno alcuna intenzione di affrontare la sfida del cambiamento climatico. In sostanza, dietro l'argomento apparentemente ragionevole secondo il quale un investitore sceglierebbe naturalmente il mercato più vantaggioso, queste persone si oppongono a qualsiasi carbon tax che non abbia un carattere globale (al che griderebbero al golpe planetario da parte di un qualche Nuovo Ordine Mondiale, ma quella è un'altra storia). Al di là delle previsioni tutt'altro che catastrofiche dei modelli matematici, va da sé che anche un paio di paginette di sussidiario riguardo le istituzioni internazionali potrebbero spiegare a questi signori l'impossibilità di uno schema simile allo stato attuale delle cose. Si invoca, fondamentalmente, un incosciente gioco del pollo con l'ambiente in palio. Oltretutto, se è vero che l'Australia ha un ruolo marginale per quanto riguarda il totale globale delle emissioni di CO2, è uno dei paesi che ne emette di più pro capite. E, soprattutto, i critici sembrano ignorare l'importanza di un effetto domino, e del proliferare di esempi positivi e produttivi che spingano sempre più governi a seguire la stessa strada. Vale la pena notare, a questo proposito, che diversi paesi hanno introdotto misure simili vent'anni fa. Certo, si tratta dei soliti noti, con in testa la Finlandia (1990), seguita da Paesi Bassi (1990), Norvegia (1991), Danimarca (1992), e il caso più emblematico, la Svezia, che nel gennaio del 1991 introdusse una tassa di 72 euro per tonnellata di CO2, salita poi a 101 euro nel 2007 (la carbon tax australiana invece, come detto sopra, prevede un prezzo comparativamente irrisorio: 23 dollari australiani a tonnellata, circa 17 euro), che ha portato ad una riduzione del 9% delle emissioni fra il 1990 e il 2006, un periodo nel quale l'economia svedese è cresciuta del 44%. Il tutto con un massiccio passaggio da combustibili fossili a biomasse ed altre rinnovabili, nelle quali oggi la Svezia è all'avanguardia. A leggere questi numeri si capisce bene per quale motivo nessun economista degno di nota sembri sposare le tesi catastrofiste dell'arrampicatore politico Tony Abbott e del suo delirante partito liberale.

C'è poi chi accusa e lincia i verdi (compreso il quotidiano generalmente filo-laburista The Australian) per aver insistito affinché le tecnologie di stoccaggio e sequestro dell'anidride carbonica fossero escluse da un fondo da 10 miliardi dollari destinato alle energie rinnovabili. Tuttavia, viste anche le varie difficoltà logistiche, il leader del partito Bob Brown ha detto chiaramente che, visti i loro profitti multi-miliardari, dovrebbero essere i big del carbone a pagarsi la propria ricerca, senza intascare soldi pubblici che, a suo dire, ha più senso destinare alle energie pulite propriamente dette.

Reazioni tutt'altro che catastrofiste arrivano anche da diversi addetti ai lavori, come Keith De Lacy, amministratore delegato della Macarthur Coal, che estrae carbone in Queensland. Aggiungiamoci il fatto che Peabody Energy e ArcelorMittal hanno appena fatto un'offerta di 4,7 miliardi di dollari per assorbire la Macarthur stessa, segno che gli investitori nel campo del carbone non sembrano poi così spaventati.

In ogni caso proposta passerà presto al vaglio del parlamento, dove, a meno di clamorose defezioni, diventerà legge. Con il proprio indice di gradimento al minimo storico (30% di soddisfatti a fronte di un 59% di insoddisfatti, molto più basso del 39-50 di Kevin Rudd quando i laburisti lo fecero fuori politicamente poco più di un anno fa in vista delle elezioni) così come quello del suo partito, Julia Gillard ha osato mettere la faccia su una delle misure più impopolari che potesse proporre, specie in un paese dove la lobby del carbone e i giganti del settore minerario riescono ad avere una notevole influenza. Coraggio è la prima parola che viene in mente. Fino ad oggi Julia Gillard ha cercato di piacere alla popolazione, con scarsissimi risultati. Potrebbe aver deciso che a questo punto tanto vale guidare il paese con l'autorità che le compete e fare scelte impopolari quanto importanti per il futuro. I prossimi mesi saranno cruciali, e c'è la possibilità concreta che il governo vada a casa fra due anni e che i liberali straccino l'intero progetto. Ma se Gillard dovesse invertire la tendenza, convincere con i fatti e centrare una vittoria elettorale - ad oggi apparentemente impensabile - alle prossime elezioni del 2014 sarebbe davvero il segno che qualcosa sta finalmente cambiando.

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E alla fine arriva Julia Gillard

Res publica   08.09.10   di Giuseppe Brescia
Brisbane

Fatevi un caffè, ché questo post sarà lungo come lunga è stata l’attesa. Sono passati diciassette giorni dalle elezioni australiane. E solo oggi, finalmente, posso dirvi chi formerà un governo. Abbiamo già parlato degli eventi che hanno portato alla deposizione del primo ministro Kevin Rudd da parte della sua vice Julia Gillard e, successivamente, alle elezioni anticipate (se pur di pochi mesi).

Col senno di poi, viene da chiedersi se effettivamente sia stata una buona mossa o meno. Certo, il gradimento di Kevin Rudd era colato a picco nel giro di pochi mesi. Ma molti credono che Kevin alla fine avrebbe potuto ottenere la riconferma, improntando la campagna elettorale sui numerosi risultati ottenuti nei due anni e mezzo del suo governo, sull'affidabilità, sulla continuità. Cosa che, invece, Julia Gillard non ha potuto fare, giacché ogni riferimento ai risultati ottenuti dal Labor nel triennio precedente non faceva che ricordare agli elettori quello che il candidato liberale Tony Abbott, pur esagerando, ha definito "l'assassinio politico del primo ministro". Inutile dire che l'affaire Rudd è stato l'arma principale dell'opposizione – se non l'unica – durante la campagna elettorale: "come ci si può fidare di un partito e di una candidata premier che fanno fuori il proprio primo ministro, al primo mandato, nel giro di poche ore?"

Dopo una settimana di campagna elettorale, infatti, Julia Gillard già si trovava ad inseguire nei sondaggi. E Kevin Rudd, reduce da un'operazione chirurgica, è stato dimesso in fretta e furia per poter dare il suo contributo alla campagna elettorale. A sentirlo parlare, dopo essermi abituato alla Gillard, mi sono chiesto cosa sia passato per la testa delle gerarchie laburiste quel giorno di giugno. Non che Rudd sia Obama, ma ha un carisma di gran lunga superiore alla Gillard, non c'è partita. La campagna è stata tutt'altro che entusiasmante. I candidati premier erano entrambi al massimo pesi medi della politica. Basti dire che di 30 pubblicità elettorali del centro-destra, 29 parlavano negativamente del governo, e di 26 pubblicità dei laburisti, 19 lanciavano messaggi negativi sull'avversario. Insomma, una noia mortale fatta di poca sostanza, tanti slogan ripetuti a pappagallo, tanta cautela, e tanto fango lanciato da un lato e dall’altro.

Il 21 agosto, finalmente, si è andati alle urne. Ho accompagnato la mia ragazza alla West End State School. Coda di elettori sotto il sole primaverile, banchetti dei vari partiti che davano volantini senza insultarsi. Genitori e bambini che vendevano hot dog, hamburger, fette di torta e bibite. Per le scuole è una buona occasione per raccogliere un po' di fondi. Nell'enorme palestra le schiere di cubicoli per votare. Il lenzuolo bianco con i candidati del senato, la piccola scheda verde per la camera.

Il sistema politico Australiano affonda le sue radici nella tradizione di Westminster, e tende a favorire i due grandi partiti, l’ALP, Australian Labor Party, e la cosiddetta Coalition, una stabile alleanza fra il Liberal Party (conservatori più o meno liberali) e il National Party (partito conservatore nato dalle ceneri del Country Party, che tradizionalmente rappresenta gli interessi dell'Australia rurale). Per i nerd della politica, il sistema elettorale è uninominale maggioritario, a collegio unico, con voto trasferibile (o preferenza multipla).

Ma veniamo ai risultati. Già la sera delle elezioni si è capito che il governo laburista rischiava grosso. Uno ad uno, i seggi in dubbio passavano puntualmente nella colonnina blu. Tuttavia l'opposizione liberale non sembrava in grado di sfondare. A sfondare erano invece i verdi, che oltre ad ottenere il record storico di voti, già quella sera potevano festeggiare l'elezione del loro primo deputato alla camera, Adam Bandt, eletto a Melbourne, storicamente seggio ultra-sicuro per i laburisti. Un altro seggio tradizionalmente dato per scontato, quello di Denison, in Tasmania, sfuggiva di mano al Labor, incoronando l'indipendente Andrew Wilkie. Altri tre indipendenti venivano confermati nei loro elettorati rurali. Alla fine della serata restavano in dubbio cinque seggi, e l'unica certezza era che difficilmente uno dei due grandi partiti avrebbe ottenuto il numero magico, 76, necessario a formare un governo.

Julia Gillard pronunciava un discorso cauto con qualche timida apertura e qualche timido mea culpa, mentre Tony Abbott cantava neanche troppo velatamente vittoria dicendo che il governo era stato battuto e aveva perso ogni legittimità. Forse un po' prematura, come uscita, visto che non aveva i numeri neanche lui.

Dopo circa una settimana non restavano più dubbi, i numeri erano 72 seggi per i laburisti, 73 per la coalizione di centro-destra, 1 per i verdi, e 4 indipendenti. Per quanto riguarda il senato, avremo invece 34 liberal-nazionalisti, 31 laburisti, 9 seggi per i verdi, uno per il minuscolo Democratic Labor Party, e un indipendente. Tuttavia è alla camera bassa che si fanno i giochi per formare un governo, dato che il bicameralismo qui non è "perfetto" come in Italia, ma prevede competenze ben distinte per le due camere.

Nelle ultime due settimane, quindi, gli indipendenti sono stati protagonisti di interminabili negoziati con i due grandi partiti, determinati ad assicurarsi i 76 seggi necessari a formare un governo. Il primo punto lo ha messo a segno giovedì scorso la Gillard, firmando un accordo con Bandt e i verdi, e riuscendo quindi a pareggiare il conto dei seggi. Il giorno successivo l'indipendente Andrew Wilkie, dopo aver a lungo trattato con ambo le parti, ha firmato un accordo garantendo il suo sostegno ai laburisti. Sorpasso. A quel punto tutto era nelle mani di tre uomini che nelle ultime settimane hanno catalizzato l’attenzione dei media, e che, uniti dalla loro determinazione a difendere gli interessi delle zone rurali che rappresentano, si sono stretti insieme nei negoziati per evitare di farsi mangiare vivi dai grandi partiti. Rob Oakeshott, Tony Windsor, e Bob Katter. I primi due sono politici fieramente indipendenti ed estremamente pragmatici, difficili da inquadrare con le categorie classiche della politica del novecento. Il terzo è un fenomeno di costume squisitamente australiano che meriterebbe un post tutto per lui. Rampollo di una famiglia di proprietari terrieri e mercanti di bestiame di origine libanese, ma australiano di quarta generazione, Bob "The Mad Hatter" Katter sfoggia sempre un caratteristico akubra da vaccaro, ed è uno che non le manda a dire. Per capirlo, bisogna tenere conto del fatto che è stato rieletto con maggioranza schiacciante nell'elettorato di Kennedy, una circoscrizione più estesa della Spagna nella quale risiedono appena 94.000 votanti. Il suo cavallo di battaglia è salvare l'Australia rurale, e se da un lato spinge l'etanolo e le rinnovabili, dall'altro è scettico sul cambiamento climatico. Ed è un conservatore secco, per nulla liberale, tanto di invocare politiche protezioniste.

I tre indipendenti hanno preso la loro responsabilità molto seriamente, esigendo l'accesso a un gran numero di documenti per poter prendere la decisione migliore. Cosa che ha evidenziato un buco da 11 miliardi di dollari nei preventivi della coalizione di centro-destra. Moltissimi, comunque, erano i temi sul tavolo delle trattative. Il principale, visti gli elettorati che questi signori rappresentano, era la sopravvivenza dell'Australia rurale. A questo proposito sia i laburisti che il centro-destra hanno subito garantito misure ad hoc. Nel frattempo i giornali più conservatori sostenevano che i tre dovessero sostenere Abbott in virtù della natura tendenzialmente conservatrice dei loro elettorati.

Ieri si attendeva la decisione dei tre. Conferenza stampa convocata per le tre. Poi, all'una e mezza, colpo di scena: Bob Katter ha accolto i giornalisti nel suo ufficio annunciando il suo sostegno per la Coalition. Per un attimo mi sono tremate le gambe. Poi, però, ho pensato – o sperato – che la conferenza stampa solitaria di Katter fosse un segno di rottura con i suoi due colleghi. E, fortunatamente, così è stato. Alle tre Rob Oakeshott e Tony Windsor hanno sviscerato, nel corso di una lunga conferenza stampa, le ragioni per il loro sostegno ad un governo laburista.

Un certo peso lo ha avuto la questione della stabilità (i laburisti si erano già assicurati 74 voti, e al Senato, per i prossimi tre anni, non passerà niente senza il nullaosta dei verdi), ma la cosa più esaltante è che i criteri principali che hanno orientato la scelta di Windsor e Oakeshott sono stati la banda larga e il cambiamento climatico. Alla faccia di chi pensava di aver a che fare con sempliciotti e bifolchi di campagna. Salvo tragedie, quindi, prenderà il via il grande progetto dell'amministrazione Rudd, una rete nazionale a banda larga in fibra ottica, in grado di portare un'infrastruttura vitale in quelle zone rurali ed isolate dove l'economia di mercato non potrebbe mai portarla. Vedremo una commissione parlamentare sul cambiamento climatico già nel prossimo paio di mesi. Insomma, ci sono già diversi motivi per essere ottimisti.

Tuttavia i quattro indipendenti e il deputato verde Adam Bandt hanno ripetutamente sottolineato il punto fondamentale di questo risultato elettorale: la gente ha punito severamente i laburisti (-5,4%), e tuttavia non ha premiato particolarmente la coalizione di centro-destra (+1,5%) bensì i verdi (+4%) e gli indipendenti (con Wilkie che si unisce agli altri tre, i quali hanno visto crescere i loro margini di vittoria). Il messaggio è abbastanza chiaro, la gente è stanca del bipartitismo spinto. Persino Bob Katter parla di "un sistema di duopolio vetusto, da diciannovesimo secolo, che non vige più nemmeno in Inghilterra. Ce l'hanno in America, ma in America non si vota per forza secondo i dettami del partito". Intanto da noi Veltroni manda lettere aperte in cui auspica "un bipolarismo maturo"...

Gli indipendenti hanno già strappato importanti accordi per un'ampia riforma parlamentare che spezzi questo duopolio, favorendo una pluralità di voci in parlamento, andando a modificare ad esempio le norme che regolano la discussione dei disegni di legge presentati dai partiti minori e dagli indipendenti.

I prossimi tre anni quindi sono una grande incognita. Un governo tenuto a bada da un parlamento che riunisce forze e competenze disparate è una grande opportunità per fare le cose in modo pragmatico e lasciar perdere l'ideologia. D'altro canto, gli incompetenti sono dappertutto, e con un solo voto di maggioranza il rischio di una crisi sarà sempre dietro l'angolo. Nella migliore delle ipotesi il governo laburista saprà coniugare le proposte dei verdi e le necessità delle aree rurali, dell'agricoltura e dell'industria mineraria. Saranno tre anni esaltanti se la Gillard giocherà bene le sue carte e se i laburisti si lasceranno alle spalle le guerre di correnti e si abitueranno alla trattativa.

Riguardo i verdi, sono di fronte a un bivio storico. Se sapranno completare la trasformazione da movimento di protesta in partito serio, in grado di saper scegliere le proprie battaglie con senso strategico, se sapranno portare a casa punti importanti su energia e cambiamento climatico, se sapranno dimostrare che ci può essere sinergia fra politiche ambientaliste, energie rinnovabili, industria e mondo del lavoro, allora potranno diventare parte integrante della politica australiana sul lungo termine e accrescere ancora la propria influenza. Se invece cadranno nelle ataviche tentazioni sinistrorse dell'ostruzionismo e dello snobismo, impuntandosi sull’ideologia e sui temi di nicchia, potrebbero implodere come è successo all’ex terzo partito del paese, i Democratici: 12,6% nel 1990, scomparsi dal parlamento alle ultime elezioni e ridotti oggi allo 0,2%.

Insomma, comunque vada ci attendono scenari nuovi. Potrebbe andare alla grande. Potrebbe essere un disastro e consegnare il paese ai liberali alle prossime elezioni. L'importante, stavolta, era non consegnarlo ad Abbott e alla frangia più estremista ed imbarazzante del centro-destra. Per il momento, tragedia scampata.

Sul sito dell'ABC trovate tutto quel che vi ho risparmiato in questo post.

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L'Australia divisa in due

Res publica   21.08.10  

Pareggio. Testa a testa. Parlamento in bilico. Questa la situazione in Australia a seguito del voto di oggi, dopo la fulminea campagna elettorale seguita all'allontanamento del primo ministro Kevin Rudd.
Julia Gillard che ne ha preso il posto ha fatto male i suoi calcoli, basati su un'iniziale euforia dei sondaggi nei suoi confronti.
Spingendo il paese al voto ne ha di fatto consegnato la metà alla Coalizione, guidata dal liberale Tony Abbott.

Quattro cose sono ora chiare a tutti.
Nessun partito ha conquistato i 76 seggi necessari per una maggioranza stabile. Non succedeva dalla Seconda Guerra Mondiale.
Il Labor ha perso la maggioranza ed è l'unico partito che è arretrato.
Tony Abbott ha saputo sfruttare la sua innata indole populista per far breccia tra gli australiani. Si è già dichiarato vincitore forte del successo elettorale, anche se la carenza di seggi lo costringerà a dover trovare scomode alleanze.
Gli indipendenti e i Verdi saranno l'ago della bilancia. Il partito ambientalista di Bob Brown conquista oltre l'11% dei voti scrutinati, decidendo di fatto l'esito delle consultazioni.
In Senato tutti guarderanno a lui.

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Il Labor avanti in Australia

Res publica   24.07.10  

Il cambio di marcia del Labor Party australiano sta dando i suoi frutti.
La neo primo ministro Julia Gillard, succeduta all'impopolare Kevin Rudd, sta trainando i consensi degli elettori in vista del 21 agosto.

Secondo i principali istituti demoscopici del paese il Labor avrebbe un vantaggio stabile. Un'ottima base da cui partire per trasformare le sensazioni in voti reali.

A meno di un mese dalle elezioni anticipate lo sfidante Tony Abbott non sembra riuscire a fare breccia nei cuori della gente, trascinando a fondo la coalizione liberale.

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Il clima pre-elettorale in Australia

Res publica   18.07.10   di Giuseppe Brescia
Brisbane

E' ufficiale. Il 21 di agosto si terranno le elezioni per il parlamento federale che decideranno chi governerà l'Australia per i prossimi tre anni. Sì, una legislatura dura tre anni, quaggiù, altro che cinque.

Le elezioni in realtà erano attese per ottobre o novembre, soltanto che nell'ultimo mese c'è stato un terremoto politico non da poco all'interno del partito laburista australiano e del governo. Il 24 giugno il primo ministro Kevin Rudd è stato scaricato senza troppe cerimonie dall'establishment laburista e sostituito con la quarantottenne Julia Gillard, la prima donna a ricoprire l'incarico di primo ministro.

Rudd, che vincendo le elezioni del 2007 aveva interrotto, dopo quattro mandati in undici anni, l'era del liberale John Howard, alla fine del 2009 registrava un 67% di consensi, a fronte di un 21% di insoddisfatti (cifre berlusconiane, ma emerse da sondaggi credibili). Ad aprile i numeri erano cambiati, 50-41. Due settimane dopo ancora era precipitato ad un impietoso 39-50. In sostanza, una popolarità dimezzata nel giro di sei mesi. Vediamo brevemente come.

Rudd, laburista atipico e rassicurante per il centro, nei primi due anni di mandato ha fatto parecchio, e bene. Ha pronunciato il primo discorso di scuse ufficiali alle popolazioni indigene, e messo a punto un piano per ridurre la disparità socio-economica fra la popolazione indigena e il resto del paese. Ha stracciato le leggi sul lavoro stile giungla approvate dal governo Howard. Ha avviato un piano massiccio per le infrastrutture e per la costruzione di una rete nazionale a banda larga (controversa, ma sicuramente un passo importante). Ha tenuto egregiamente a galla il paese durante la crisi economica, in maniera seria, con un pacchetto di stimolo economico che ha visto ogni australiano intascare fra i 900 e i 2700 dollari (600€-1800€) a babbo morto.

Poi però c'è stato il mezzo fiasco della conferenza sul cambiamento climatico di Copenaghen. In seguito, quando la battaglia per una legge sul mercato delle emissioni si è fatta dura al senato, Rudd - che in passato aveva definito tale legge un grande imperativo morale - ha ritirato la proposta, sostenendo che alla fin fine non era mica una priorità. E questo gli ha alienato simpatie a sinistra. Di recente, invece, aveva proposto una supertassa che avrebbe dovuto riguardare i giganti del settore minerario. Tassa che, in linea di massima, mi pareva buona e giusta, visti i profitti stratosferici di queste compagnie e il loro impatto ambientale, ma che, ovviamente, ha portato le compagnie e tutti gli operatori del settore minerario (che fondamentalmente è la spina dorsale dell'economia australiana) a scatenare un'intensa campagna pubblicitaria contro la proposta. Il tutto condito con minacce esplicite di ritirare gli investimenti colpendo così duramente l'occupazione. E questo gli ha alienato simpatie al centro e a destra. Brutta scelta anche il sostegno al suo ministro delle comunicazioni, Stephen Conroy, e alla sua folgorante idea di un firewall nazionale volto a bloccare l'accesso a una lista di siti (che peraltro sarebbe dovuta rimanere segreta) con la solita scusa di bloccare "i siti pedofili" e altro materiale illegale. L'incompetenza non paga, da queste parti. Nel frattempo, il sosia di Tin Tin (davvero, fateci caso) è anche riuscito a mettersi conto gran parte delle correnti del partito laburista, che lo accusavano di governare in modo autocratico.

I conti sono presto fatti. Andare alle elezioni nel giro di quattro mesi con un candidato del genere pareva un azzardo se non un suicidio. E allora largo alla sua vice, il cui compito è semplice: ingraziarsi più elettori possibili (più o meno fatto), indire elezioni presto, durante la cosiddetta "luna di miele" (fatto), e non fare casini troppo grossi fino ad allora.

E nonostante sia tutt'altro che entusiasta sia della Gillard sia dei laburisti in generale, è tremendamente importante che porti a casa il risultato. Perché dall'altra parte ci sarà Tony Abbott, e la prospettiva di averlo come primo ministro è alquanto agghiacciante. Si tratta di una specie di piazzista pronto a mutare a seconda del pubblico, ma rispetto al piazzista provetto che ha distrutto l'Italia in questi quindici anni, gli mancano il disturbo narcisistico, il talento, e, si spera, i boccaloni. Impagabile quest'intervista del maggio scorso in cui il giornalista Kerry O'Brien di ABC1 (l'equivalente, per così dire, di RAI Uno) gli ride ripetutamente in faccia mettendolo spalle al muro di fronte alle sue dichiarazioni contraddittorie (un massacro, roba che Santoro, a confronto, è un mite e passivo agnellino, e colgo l'occasione di far notare che nessuno, qui, si stupisce dello stile di O'Brien, e di certo nessuno gli lancia strali di alcun genere). Quali che siano le sue reali posizioni, Abbott un anno fa sosteneva che i dati scientifici sul cambiamento climatico fossero "altamente controversi". Non pago, a ottobre 2009, parlando a una folla di bifolchi a Beaufort, Victoria, ha detto allegramente che

Gli argomenti per il cambiamento climatico sono delle cagate assolute... tuttavia, da un punto di vista politico è dura, per noi. L'80% delle persone crede che il cambiamento climatico sia un pericolo vero e immediato.

E meno male. Abbott è inoltre contrario alla ricerca sulle cellule staminali e. ovviamente, all'eutanasia. E non gli dispiacerebbero restrizioni molto più severe sull'aborto. Insomma, un belloccio (orecchie a parte) abbastanza giovane, che usa tecniche da venditore ambulante e sembra davvero poco preparato. Dalla sua ha però un'aria da uomo medio e un accento marcato che fa presa sui bifolchi di turno. Fondamentalmente mi ricorda Rutelli. Spero vivamente che faccia la stessa fine.

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